Kenya, Post

C’era una volta una discarica…

gennaio 22, 2018
Dandora: oltre 2,5 chilometri quadrati di terreno ricoperto da scarti e rifiuti, dove sorge l’omonimo slum.
Insieme a quelle di Korogocho, Kariobangi e di Mathare, la baraccopoli di Dandora si è creata da tempo nella parte nord-est di Nairobi; queste aree sono abitate da circa un milione di persone, che vivono in case fatiscenti e in baracche di lamiere, spesso senza luce, né fogne, né acqua. Un numero enorme di persone, accerchiate dall’evoluzione incontrollata e senza senso di questa megalopoli africana, che costruisce a poche centinaia di metri centri commerciali ultra-lusso e autostrade “cinesi”.
Entrando in uno slum di Nairobi, si viene assaliti da una realtà che resterà per sempre vivida nella memoria.
Il primo impatto è acre, come l’odore che colpisce lo stomaco quasi fosse un pugno. Un odore di immondizia lasciata al sole per giorni, per anni a fermentare. Un odore di escrementi, di pioggia stagnante, di un fiume che è la cloaca dello slum dove qualsiasi scarto viene buttato. Un odore che ti segue costantemente e che non ti lascia più, anche nel ricordo.
Poi, sono le immagini a stordire. Sporcizia e rifiuti campeggiano ovunque: pattumiera ormai spogliata di ogni suo residuo organico, plastica dappertutto che non muore mai. Lo sguardo si perde su un’infinità di baracche in lamiera, alcune in muratura, dove possono vivere in pochi metri quadrati – 15 per capirci – anche 10 persone. Case e persone, le une attaccate alle altre in un groviglio senza senso e in una continuità interminabile: si entra in un vicolo e se ne apre immediatamente un altro e poi un altro ancora; una moltitudine di viuzze dissestate che conducono ad altrettanti tuguri e cortiletti malconci; buchi nel suolo mai riparati e canaletti di scolo creatisi naturalmente per raccogliere i liquami da far scivolare fino al fiume.
Qui la gente sopravvive in assenza di igiene, di acqua e di elettricità, ammassata all’inverosimile in spazi ridottissimi.
Tuttavia, un’allegria spontanea contrasta con il suo spirito il degrado circostante. Stupisce vedere volti sorridenti, persone normalmente affaccendate nei lavori quotidiani: una donna che lava vigorosamente i panni in un secchio di plastica e li appende lindi in una strada sudicia, un’altra donna che ordinatamente vende banane e mango seduta per terra, uomini che espongono le proprie mercanzie, tutte di seconda mano, all’interno di piccoli negozi di lamiera e bambini, tantissimi bambini, che giocano, ruzzolano e corrono divertiti in mezzo al fango, alla spazzatura, alla sporcizia.
Dopo l’olfatto e la vista, è la mente a venire segnata da un’improvvisa sensazione di paura. La paura della propria ignoranza del luogo. La paura del nuovo, di ciò che non si può prevedere e controllare perché estraneo alle consuete abitudini. Paura fisica di uno scontro, magari dettato da una sorta di razzismo al contrario, oppure di un attacco, da parte di un ubriaco, di un vecchio, persino di un bambino. Si tengono stretti al corpo i propri beni, ci si guarda intorno circospetti, anche se accompagnati, non si filma per timore di venire derubati.
Tutto fa paura: il luogo, la popolazione, le malattie.
Tutto così alieno e ineluttabile, testimonianza di come, nell’epoca del benessere, ci possano ancora essere luoghi così.
C’era una volta, e c’è ancora, una delle discariche più grandi d’Africa: Dandora.

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