Kenya, Post

Una panoramica sul Kenya: economia, tasse e servizi.

settembre 20, 2018
Secondo gli esperti, il Kenya vedrà il proprio PIL aumentare del 6% l’anno; un trend eccezionalmente positivo, se non fosse accompagnato da un aumento più alto dell’inflazione che corre sul filo dell’8% e da un aumento delle nascite incontrollabile (il tasso di fertilità resta molto alto, intorno al 4,6; sicuramente lontano dal Mali, che conta un tasso di fertilità di 7,3).

In questo quadro, il potere d’acquisto degli abitanti rischia di rimanere uguale, se non di dover subire un calo significativo. Se usassimo la famosa piramide della ricchezza adattandola al Kenya, solo 161.000 persone adulte (con più di 19 anni) potrebbero essere considerate ricche, con un guadagno in media di 198.000 dollari l’anno. La seconda fascia comprenderebbe invece tutte quelle persone che guadagnano circa 17.000 dollari all’anno; parliamo di circa 1,6 milioni di persone adulte, ossia la famosa classe media. La terza fascia avrebbe ancora un reddito sostenibile: circa 4,3 milioni di persone (insegnanti privati, camerieri, piccoli imprenditori informali, piccoli commercianti) che guadagnano una media di 1.800 dollari all’anno.
Infine, emergerebbe la quarta fascia della popolazione al di sotto della soglia di povertà, quella che sopravvive con 178 dollari all’anno (50 centesimi al giorno, che probabilmente arrotonda con l’economia informale ai famosi 2 dollari al giorno): si parla di 23 milioni di persone, posizionate in quest’ultimo gradino sociale, e del 73% della popolazione adulta.

 

Con un livello di povertà così diffuso è difficile pensare a un sistema di tassazione tale da migliorare i servizi offerti dallo Stato. Prima di intervenire a questi livelli, bisognerebbe forse pensare di togliere queste persone – il 73% della popolazione – da quel gradino di povertà estrema.
Un’impresa che non sembra di facile attuazione, né qui né nel resto dell’Africa.
Il PIL del Kenya arrivava, nel 2017, a circa 69 miliardi di dollari, mentre il bilancio dello Stato prevedeva ricavi per 16 miliardi di dollari e costi per 20 miliardi. Un disavanzo di 4 miliardi di dollari l’anno, che pesava sul debito pubblico (circa il 54% del PIL). Per fare un veloce confronto con il nostro bel paese, ricordiamo che l’Italia ha un debito pubblico che supera il 130% del suo prodotto interno lordo: i livelli di indebitamento del Kenya non sono, quindi, ancora da considerarsi drammatici.
Valutando la composizione dei ricavi, si nota come le tasse pesino sulle entrate per il 75%: 12 miliardi su 16 provengono dal regime fiscale, per due terzi sulle persone fisiche e per un terzo sui profitti societari.
Dalle spese possiamo invece capire qualcosa in più di questo paese: i trasferimenti alle province e gli stipendi, insieme, raggiungono i 5 miliardi; emerge il poco interesse nel finanziare le pensioni, che raccolgono solo 60 milioni di dollari (tanto per fare di nuovo un paragone, in Italia lo stato spende all’anno 216 miliardi per la stessa voce, con solo il 20% di più della popolazione). In generale, i trasferimenti alle provincie (counties), gli stipendi pubblici, la spesa sugli interessi, un po’ di difesa, pochissime pensioni e poca sanità valgono 14 miliardi sui circa 20 totali.
Il quadro complessivo racconta quindi un prelievo fiscale che non è sufficiente a coprire le uscite dello Stato e una composizione della spesa pubblica che non è al servizio dei cittadini. Scarsa sanità, pochissime pensioni, un’assistenza precaria, infrastrutture insufficienti.
Le cifre raccontano invece di uno Stato che si sta indebitando, che paga stipendi a tantissima gente dipendente dallo e dello Stato e che trasferisce tanti soldi alle provincie che ritornano a essere ancora stipendi a dipendenti provinciali.
L’idea che ci si fa è quella della creazione di una lobby clientelare a fini politici. Ne emerge un governo debole e poco sostenibile, ancora prigioniero di un circolo vizioso che accomuna molta Africa.

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